

Luca De Biase & Stefano Moriggi PARTE 2
10 Febbraio 2025
PARTE 2
L’intersezione tra digitale e mondo medico sanitario rappresenta senza dubbio una delle prospettive più interessanti – e, per molti versi, anche più urgenti – in cui collocarsi per comprendere come e quanto si dovrà ripensare, teoricamente e operativamente, il concetto di cittadinanza al fine di affrontare le sfide di un futuro ormai imminente. Garantire un accesso e agile e diffuso servizi, investire sulla prevenzione, scommettere sulle potenzialità dell’innovazione tecnologica per aprire nuovi orizzonti alla diagnosi e alla scoperta di farmaci e terapie sono solo alcune delle linee di ricerca e sviluppo entro cui potremmo e dovremmo ridefinire non solo il fenotipo del paziente del futuro, ma più in generale il ritratto di un individuo che, diventando consapevole di un inedito orizzonte di diritti e opportunità, si rende consapevole di cosa possa (e debba significare) essere cittadini in un contesto sociale sempre più digitalizzato. In questa direzione va letta la scelta della Facoltà di Medicina dell’Università di Modena e Reggio Emilia che ha accolto all’interno del Dipartimento CHIMOMO (Dipartimento Chirurgico Medico, Odontoiatrico e di Scienze Morfologiche con Interesse Trapiantologico, Oncologico e di Medicina) il corso di laurea triennale di Digital Education – attualmente coordinato dal prof. Stefano Moriggi (docente di Cittadinanza Digitale).
Il corso propone alle studentesse e agli studenti tre indirizzi di studio: Educatore psico-sociale nei contesti digitali; Educatore digitale nei contesti socio-sanitari e Instructional Designer nei contesti digitali. Tale offerta è stata pensata e pianificata con l’obiettivo di formare professionisti che abbiano le conoscenze e le competenze necessarie per utilizzare il digitale al fine di portare una progettualità innovativa nei servizi educativi e nelle aziende medico-sanitarie. Come si diceva, una nuova idea di cittadinanza potrebbe significativamente prendere forma proprio da una nuova cultura ed educazione digitale al servizio della sanità pubblica.
Il corso propone alle studentesse e agli studenti tre indirizzi di studio: Educatore psico-sociale nei contesti digitali; Educatore digitale nei contesti socio-sanitari e Instructional Designer nei contesti digitali. Tale offerta è stata pensata e pianificata con l’obiettivo di formare professionisti che abbiano le conoscenze e le competenze necessarie per utilizzare il digitale al fine di portare una progettualità innovativa nei servizi educativi e nelle aziende medico-sanitarie. Come si diceva, una nuova idea di cittadinanza potrebbe significativamente prendere forma proprio da una nuova cultura ed educazione digitale al servizio della sanità pubblica.

Luca De Biase
Progettare un sistema di sanità pubblica nel mondo digitale vuol dire anche curare le conseguenze del digitale?
Progettare un sistema di sanità pubblica nel mondo digitale vuol dire anche curare le conseguenze del digitale?

Stefano Moriggi
Sicuramente sì, in tutti i casi in cui saranno state diagnosticate. Ma sono altrettanto convinto che, pur mantenendo vigile l’attenzione sulle criticità conseguenti a utilizzi inadeguati dei dispositivi tecnologici, occorra anche evitare una ingiustificata medicalizzazione del digitale. In termini più propositivi occorrerebbe iniziare a pensare il digitale come un orizzonte concettuale e pratico entro cui ri-disegnare contesti e scenari della nostra società. Il che, ovviamente, richiede conoscenze e competenze che eccedono quelle informatiche; e, d’altra parte, necessiterebbe anche della lucidità diagnostica per andare a fondo di disagi e scompensi che, se trovano non di rado nelle tecnologie uno sfogo problematico e addirittura patologico, hanno spesso le loro cause scatenanti in problemi sociali, familiari, educativi che sarebbe utile e opportuno riconoscere e distinguere da quelli più direttamente connessi a usi impropri delle tecnologie.
Sicuramente sì, in tutti i casi in cui saranno state diagnosticate. Ma sono altrettanto convinto che, pur mantenendo vigile l’attenzione sulle criticità conseguenti a utilizzi inadeguati dei dispositivi tecnologici, occorra anche evitare una ingiustificata medicalizzazione del digitale. In termini più propositivi occorrerebbe iniziare a pensare il digitale come un orizzonte concettuale e pratico entro cui ri-disegnare contesti e scenari della nostra società. Il che, ovviamente, richiede conoscenze e competenze che eccedono quelle informatiche; e, d’altra parte, necessiterebbe anche della lucidità diagnostica per andare a fondo di disagi e scompensi che, se trovano non di rado nelle tecnologie uno sfogo problematico e addirittura patologico, hanno spesso le loro cause scatenanti in problemi sociali, familiari, educativi che sarebbe utile e opportuno riconoscere e distinguere da quelli più direttamente connessi a usi impropri delle tecnologie.

Luca De Biase
Un grande dibattito si è sviluppato intorno alle sofferenze che gli adolescenti in particolare dovrebbero sopportare a causa delle caratteristiche delle piattaforme digitali che utilizzano di più. Che cosa occorre fare in materia?
Un grande dibattito si è sviluppato intorno alle sofferenze che gli adolescenti in particolare dovrebbero sopportare a causa delle caratteristiche delle piattaforme digitali che utilizzano di più. Che cosa occorre fare in materia?

Stefano Moriggi
Anzitutto, occorre riconoscere e isolare le derive più pericolose effettivamente conseguenti a un uso improprio delle tecnologie digitali dalle diagnosi e dalle analisi che, più o meno intenzionalmente, confondono, per esempio, nessi di causalità con meno significative correlazioni tra dati ed evidenze. Recente ed emblematico è il caso di Jonathan Haidt. Nel suo la Generazione ansiosa, lo psicologo statunitense ha cercato di spiegare come e perché i social “hanno rovinato i nostri figli”. Peccato che – come ha puntualizzato Candice Odgers su Nature – “centinaia di ricercatori, me compresa, hanno cercato il tipo di grandi effetti suggeriti da Haidt. I nostri sforzi hanno prodotto un mix di assenza o di marginale associazione. La maggior parte dei dati è correlativa. Quando si riscontrano associazioni nel tempo, non suggeriscono che l’uso dei social media predice o causa la depressione, ma che i giovani che hanno già problemi di salute mentale usano queste piattaforme più spesso o in modi diversi dai loro coetanei sani”. Si sa, teorizzare l’apocalisse (tecnologica) è facile e spesso redditizio, sia in termini reputazionali sia anche economici. Fare ricerca sull’evoluzione del digitale, sulle sue ricadute, e divulgarla in un’epoca di transizione tecnologica è di certo un compito più faticoso e complesso a cui studiosi e professionisti (dell’educazione, ma non solo) dovrebbero essere opportunamente formati.
Anzitutto, occorre riconoscere e isolare le derive più pericolose effettivamente conseguenti a un uso improprio delle tecnologie digitali dalle diagnosi e dalle analisi che, più o meno intenzionalmente, confondono, per esempio, nessi di causalità con meno significative correlazioni tra dati ed evidenze. Recente ed emblematico è il caso di Jonathan Haidt. Nel suo la Generazione ansiosa, lo psicologo statunitense ha cercato di spiegare come e perché i social “hanno rovinato i nostri figli”. Peccato che – come ha puntualizzato Candice Odgers su Nature – “centinaia di ricercatori, me compresa, hanno cercato il tipo di grandi effetti suggeriti da Haidt. I nostri sforzi hanno prodotto un mix di assenza o di marginale associazione. La maggior parte dei dati è correlativa. Quando si riscontrano associazioni nel tempo, non suggeriscono che l’uso dei social media predice o causa la depressione, ma che i giovani che hanno già problemi di salute mentale usano queste piattaforme più spesso o in modi diversi dai loro coetanei sani”. Si sa, teorizzare l’apocalisse (tecnologica) è facile e spesso redditizio, sia in termini reputazionali sia anche economici. Fare ricerca sull’evoluzione del digitale, sulle sue ricadute, e divulgarla in un’epoca di transizione tecnologica è di certo un compito più faticoso e complesso a cui studiosi e professionisti (dell’educazione, ma non solo) dovrebbero essere opportunamente formati.

Luca De Biase
In generale, la tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale in particolare, sono spesso oggetto di discussioni che si chiudono nella dicotomia tra opportunità e rischi: ma dato che il digitale è una realtà destinata a restare e che le sue caratteristiche sono frutto dei valori di chi la progetta, non sarebbe ora di superare quella dicotomia e cominciare a progettare meglio il digitale del futuro. La telemedicina, la facilitazione delle relazioni tra il personale medico e i cittadini, la distribuzione dei risultati delle analisi, e altri servizi possono essere indubbiamente facilitati dalle piattaforme digitali. Ma occorre anche pensare a contrastare la diffusione di false notizie mediche sulle stesse piattaforme. E lavorare per migliorare la vita in un contesto che, come quello digitale, può diventare sfidante per il benessere delle persone più fragili. La progettazione della sanità pubblica del futuro potrebbe dunque diventare la progettazione del digitale del futuro?
In generale, la tecnologia digitale e l’intelligenza artificiale in particolare, sono spesso oggetto di discussioni che si chiudono nella dicotomia tra opportunità e rischi: ma dato che il digitale è una realtà destinata a restare e che le sue caratteristiche sono frutto dei valori di chi la progetta, non sarebbe ora di superare quella dicotomia e cominciare a progettare meglio il digitale del futuro. La telemedicina, la facilitazione delle relazioni tra il personale medico e i cittadini, la distribuzione dei risultati delle analisi, e altri servizi possono essere indubbiamente facilitati dalle piattaforme digitali. Ma occorre anche pensare a contrastare la diffusione di false notizie mediche sulle stesse piattaforme. E lavorare per migliorare la vita in un contesto che, come quello digitale, può diventare sfidante per il benessere delle persone più fragili. La progettazione della sanità pubblica del futuro potrebbe dunque diventare la progettazione del digitale del futuro?

Stefano Moriggi
Sarebbe davvero auspicabile superare il livello del “buon senso” e affrontare in tutta la sua complessità l’interazione della specie umana con le tecnologie. Illudersi di poter comprendere e gestire il nostro commercio con le macchine separando, concettualmente e concretamente, i rischi dalle opportunità, significa non cogliere ciò che già Platone aveva intuito ragionando attorno alla scrittura alfabetica. La scrittura è un pharmakon, spiegava il filosofo ateniese. Ovvero, un medicamento che avvelena e un veleno che cura. È stessa cosa dicasi per i dispositivi digitali. L’illusione per poterli gestire con il “buon senso” di chi, avvalendosi magari di parametri come l’uso (che coglie l’opportunità) e l’abuso (che degenera nel rischio), pretende di individuare una qualche sostenibilità del nuovo ecosistema, è la prima fake news che andrebbe smascherata. È piuttosto sulla base di una cultura digitale epistemologicamente più strutturata che si dovrebbero sviluppare e condividere – come già facciamo in diversi insegnamenti del nostro corso di studi in Digital Education – approcci, strategie e strumenti per orientarsi in una infosfera datificata in rapida evoluzione. Per capire insieme quali “forme di vita” potrebbero auspicabilmente rappresentare scenari di cittadinanza plausibile – anche e soprattutto pensando ai soggetti più fragili – in vista di un futuro che incombe su di noi.
Sarebbe davvero auspicabile superare il livello del “buon senso” e affrontare in tutta la sua complessità l’interazione della specie umana con le tecnologie. Illudersi di poter comprendere e gestire il nostro commercio con le macchine separando, concettualmente e concretamente, i rischi dalle opportunità, significa non cogliere ciò che già Platone aveva intuito ragionando attorno alla scrittura alfabetica. La scrittura è un pharmakon, spiegava il filosofo ateniese. Ovvero, un medicamento che avvelena e un veleno che cura. È stessa cosa dicasi per i dispositivi digitali. L’illusione per poterli gestire con il “buon senso” di chi, avvalendosi magari di parametri come l’uso (che coglie l’opportunità) e l’abuso (che degenera nel rischio), pretende di individuare una qualche sostenibilità del nuovo ecosistema, è la prima fake news che andrebbe smascherata. È piuttosto sulla base di una cultura digitale epistemologicamente più strutturata che si dovrebbero sviluppare e condividere – come già facciamo in diversi insegnamenti del nostro corso di studi in Digital Education – approcci, strategie e strumenti per orientarsi in una infosfera datificata in rapida evoluzione. Per capire insieme quali “forme di vita” potrebbero auspicabilmente rappresentare scenari di cittadinanza plausibile – anche e soprattutto pensando ai soggetti più fragili – in vista di un futuro che incombe su di noi.